Valentina De Risi: “il calcio femminile è molto più considerato rispetto al passato e la presenza della Nazionale a Cosenza è un segno di questo cambiamento”

Eliseno Sposato

Eliseno Sposato

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Continua il nostro viaggio di avvicinamento alla prima gara di qualificazione ai campionati europei di calcio femminile, che vedrà opposte le nazionali di Italia e Paesi Bassi, il prossimo 5 aprile allo stadio San Vito – Marulla di Cosenza.
Dopo l’intervista al Presidente del Comitato Regionale Calabro della LND Saverio Mirarchi, oggi vi proponiamo un’altra voce autorevole del calcio femminile nazionale: quella di Valentina De Risi allenatrice della U.S. Salernitana 1919 e responsabile nazionale dell’AIAC (Associazione Italiana Allenatori Calcio).

Dopo la gara della Nations League che ha visto Italia e Spagna affrontarsi allo stadio Arechi di Salerno, la Nazionale torna nel Sud Italia per un altro importante impegno internazionale. In che modo pensa si possa vivere da spettatori questo tipo di evento?

“Da salernitana ho vissuto con grande emozione quella gara giocata sul nostro territorio. Noi, come allora, dobbiamo farci trovare pronti, riempiendo lo stadio e facendo sentire il calore verso i colori azzurri e verso la Nazionale Femminile, facendo capire quanto la passione per questo sport stia crescendo nel Sud Italia”.

Eventi come questo sono uno spot importante per il movimento, ma mi racconta il suo percorso di crescita all’interno di questo sport, in un’epoca dove non era di certo immaginabile quello che possiamo vedere oggi.

“Come tutte ho iniziato a giocare in cortile insieme ai miei fratelli, con i maschi. Poi a undici anni ho trovato una squadra femminile sul territorio, con tutte ragazze più grandi, perché non esistevano i settori giovanili. Io, venendo da un piccolissimo paese della provincia di Salerno, ho trovato quest’opportunità giocando anche con ragazze di 30 anni e più. Poi ho iniziato tutta la trafila andando a giocare in Basilicata in una squadra di A2, poi a venticinque anni un infortunio mi ha costretto ad intraprendere la carriera di allenatrice, continuando a giocare per altri tre anni, finché non mi sono poi dedicata totalmente al ruolo di allenatrice. Così dopo una lunga gavetta, sono approdata ad una Società professionistica dove svolgo il ruolo di head Coach della squadra femminile della Salernitana. Credo che il mio sia stato un percorso simile a tante altre ragazze del sud”.

Lei ha vissuto l’epoca pionieristica del calcio femminile, dove il professionismo è arrivato da meno di un anno e limitato alla sola Serie A. È questo il passo decisivo per fare crescere il movimento del calcio femminile?

“Credo di avere vissuto l’epoca più difficile del calcio femminile, perché io giocavo nel periodo successivo a quello d’oro in cui giocavano calciatrici come Carolina Morace o Rita Guarino. Dopo venne un periodo buio dove non solo il calcio era poco praticato, ma era davvero poco considerato, mi permetta di dire, a tutti i livelli. Da allora c’è stato un lungo percorso che ha portato il nostro sport ad un livello più consono che, pur non essendo ancora arrivato al livello auspicato, si è arrivati ad un livello dove sia come calciatrici che, come allenatrici, si può lavorare in maniera più consona. Abbiamo raggiunto uno status che solo qualche anno fa sognavamo. Anche se c’è tanto lavoro da fare, siamo ad un buon punto grazie al lavoro svolto da tutte le componenti federali che hanno fatto sì che oltre al professionismo per le squadre di Serie A, il calcio femminile sia molto più considerato rispetto al passato e la presenza della nazionale maggiore a Cosenza è un segno di questo cambiamento”.

Mi sembra di risentire le parole che Sara Gama mi ha rivolto durante una breve chiacchierata informale che abbiamo avuto allo stadio Arechi dopo quella gara tra Italia e Spagna. Questo lungo lavoro fatto nel corso degli anni oggi è sorretto dalla grande visibilità che il calcio femminile ha avuto durante i mondiali del 2018 e dall’attenzione con cui i grandi network televisivi riservano alle gare di Serie A. Questo può servire alle bambine di oggi a scegliere di praticare il calcio. Dalla sua esperienza di allenatrice nota una crescita esponenziale, anche a livello numerico, del movimento?

“Sicuramente una campionessa del calibro di Cristiana Girelli nasce ogni diecimila che praticano lo sport, ma i numeri sono decisamente in aumento. Le parlava di quel Mondiale in cui i risultati della Nazionale, unita alle gare trasmesse da Sky ha avvicinato gli appassionati al calcio femminile. Dal 2018 ad oggi il numero delle tesserate, nonostante il rallentamento del periodo Covid, è aumentato notevolmente e la visibilità offerta dalla Tv ha aiutato le bambine ad avvicinarsi, ma soprattutto ai genitori ad avere un approccio diverso verso il calcio femminile e considerarlo al pari di quello maschile o di altri sport”.

Un approccio diverso che hanno avuto anche le Società professionistiche che hanno iniziato ad investire nel settore. Ad esempio, vediamo a Cosenza la Società che ha persino la squadra Under 12 e tutte le altre categorie benché si giochi in un campionato interregionale. In questo senso è toccato anche alle Società investire nel settore.

“Di certo sono state spinte dagli obblighi federali perché, voglio ricordarlo, La Federazione ha creato un programma di sviluppo del calcio femminile “obbligando” le Società maschili ad investire nel settore femminile. Una volta dato l’imput sono state tante le Società che ci hanno creduto, investendo in maniera cospicua non solo in termini economici quanto in termini di personale qualificato. Questa sinergia tra il risultato del Mondiale, il programma della Federazione, gli investimenti delle Società e la visibilità dei media ha dato l’accelerata definitiva che in questi ultimi cinque anni, per chiudere definitivamente quegli anni bui in cui si è ritrovato il movimento. Tutto questo insieme, unito alle componenti federali, l’Associazione Allenatori, l’Associazione Calciatori hanno dato un grande contributo che ha portato anche i giornalisti ad occuparsi del settore e questo è un grande traguardo per noi”.

Lei si occupa anche di formare i nuovi allenatori nei corsi di abilitazione proposti dalla FIGC. In cosa consiste il suo ruolo di Docente?

“All’interno dei corsi di abilitazione per ottenere la licena di allenatore UEFA B e C, sono previste sei ore dedicate al calcio femminile in cui io relaziono sulla materia. In questo devo ringraziare il Presidente dell’AIAC Renzo Ulivieri, che anche in veste di direttore della scuola di formazione di Coverciano, ha voluto che all’interno dei corsi ci fossero queste ore di formazione. In questo modo tutti quelli che ottengono la licenza da allenatori hanno questo primo approccio con il mondo del calcio femminile. In queste ore si parla delle riforme, degli aspetti fisici, delle differenze anatomiche e tecnico-tattiche, su tutti gli aspetti su cui lavorare con il calcio femminile. Io penso che siano ore molto preziose anche perché molti di loro finiscono per appassionarsi e li ritrovo in club femminili, un mondo che prima era per loro totalmente sconosciuto”.

Un vero e proprio salto culturale che questi uomini di calcio compiono, visto che spesso tutti o quasi, gli iscritti sono ex calciatori. Ma il vero salto culturale adesso lo devono fare i tifosi, visto che difficilmente il grosso delle tifoserie delle squadre maschili seguono anche quelle femminili, che molto spesso hanno una tifoseria dedicata composta di amici e parenti delle calciatrici piuttosto che di tifosi solo del settore femminile. Cosa serve per fare capire alla massa dei tifosi che non esiste differenza tra il calcio maschile e quello femminile?

“Purtroppo per i tifosi il calcio femminile rappresenta una nicchia, A parte le grandi squadre come la Juventus, la Roma ecc. che hanno anche tifoserie fedeli al club e seguono un po’ tutto, le altre hanno, come diceva lei, un seguito di genitori, parenti e amici. Purtroppo, questo è uno step che manca e che è dovuto alla scarsa conoscenza del movimento e a priori non sono interessati. L’idea è quella di farli arrivare a vedere anche una sola partita come può essere quella della Nazionale e poi magari, apprezzando le doti delle calciatrici, arrivare anche a seguire la squadra del proprio territorio. Bisogna creare questi eventi come la partita di Champions League fra Roma e Barcellona che portato oltre quarantamila spettatori allo stadio Olimpico e sperare che da lì ci si appassioni anche al calcio femminile”.

Le chiedo un’ultima riflessione sugli sforzi che le Società dilettantistiche compiono per tenere in vita una squadra femminile. Vanno bene gli ingressi delle squadre professionistiche nel mondo femminile, ma sappiamo bene che la base del movimento è fatta di centinaia di piccole Società con tanto entusiasmo ma pochissimi mezzi a disposizione.

“Posso parlare con cognizione di causa, visto che fino a pochi anni fa gestivo la squadra del mio paese che è arrivata sino alla Serie C e capisco bene a cosa si riferisce. Nel mio lavoro di referente nazionale spingo tantissimo su questo aspetto: credo che il calcio femminile debba camminare su due binari distinti. Continuare a sostenere i club professionisti perché da li arriva la visibilità di cui il movimento ha bisogno. Ma allo stesso tempo bisogna sostenere la base e le piccole Società che operano su territori dove in pochi credono al valore di questo sport. Ma anche i giornalisti devono dare visibilità a queste piccole realtà, in modo che anche gli sponsor possano avvicinarsi ed aiutare queste Società, anche ad uscire ed avvicinarsi a fare opera di promozione nelle scuole. Ci sono tanti progetti federali rivolti a questo ma non sempre si trova apertura da parte degli istituti scolastici. So che non è facile ma se uniamo gli sforzi sono sicura che ce la faremo”.

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